Ogni autore ha una sua propria connessione con le storie che scrive e il mondo nel quale farle accadere. I motivi per queste scelte possono essere i più diversi, con motivazioni estremamente personali.
Qui chiedo a Francesco Cotrona come nasce l'ambientazione che sceglie per le sue opere.
L'ambientazione nella fantascienza permette di immaginare futuri possibili, presenti desiderabili e anche passati alternativi. Se hai preferenze, quali momenti nel tempo ti hanno ispirato di più e per quale motivo?
I miei racconti, esclusi un paio, sono di norma ambientati in futuri relativamente prossimi, come Trashbuster, scritto oltre 10 anni fa e uscito su Il Magazzino dei Mondi n.1 a fine 2023. Parla del duro lavoro dello spazzino spaziale che si trova a dover contenere la monnezza orbitale prima che dia luogo a una catastrofica sindrome di Kessler, ovvero l’intasamento delle orbite basse per colpa della spazzatura che lanciamo in LEO (Low Earth Orbit). Dopo tanto tempo la cosa, con mio grande disappunto (perché potevamo essere più svegli) ma anche con perversa soddisfazione (ci ho preso!), sta davvero diventando un problema e solo adesso, nonostante fosse ampiamente prevedibile, stiamo studiando qualche − incauta e insufficiente − contromisura.
Altro esempio: L’ultimo dono possibile, che è finito sull’antologia Ultime Letture di Giorgio Sangiorgi nel giugno 2024. Anche questo l’ho scritto tanti anni fa, quando ancora si parlava di sovrappopolazione. Prefigura una possibile, altruistica soluzione al problema dell’esaurimento delle risorse, dell’eccessiva antropizzazione del territorio, della scarsità d’acqua ecc. Me l’ha ispirato un libro del 2000, Il Rapporto Lugano. La salvaguardia del capitalismo nel ventunesimo secolo, in cui Susan George ragiona su cosa sarebbe necessario per fare quel che dice il sottotitolo: leggendolo ho concluso che mancava l’impatto emotivo, che il libro non veicolava bene le conseguenze della nostra scelta dissennata di adottare un sistema economico che non si preoccupa del bene collettivo. Ho portato il ragionamento alle sue estreme conseguenze e il finale è abbastanza agghiacciante, credo, da rendere l’idea.
Il punto è che mi piace estrapolare in maniera credibile partendo dal presente. Credo sia quello il ruolo più importante della fantascienza. Non ricordo chi la chiamasse “l’unico genere letterario interessante” ma sono d’accordo, perché è il solo che fa questa cosa di mettere uno specchio davanti all’umanità e chiederle “dove, da qui?”.
Esistono dei luoghi che trovi maggiormente indicati per il tuo concetto di fantascienza? E nel tempo le tue preferenze per i luoghi sono sempre rimaste uguali o sono evolute?
Mi piace lo spazio. Vivere nello spazio, colonizzare lo spazio, esplorare lo spazio. Sono un fan di Star Trek fin dall’infanzia e quella voglia di scoprire, conoscere, indagare, stringere rapporti con “nuove forme di vita e nuove civiltà” mi ha sempre spinto a immaginare come. E poi nello spazio ci sono strambe biologie, condizioni estreme, fenomeni fisici controintuitivi ma del tutto reali, enigmi da risolvere! Anche senza mettere in mezzo gli alieni, interrogarmi sul modo in cui ci butteremo “lì fuori” mi è sempre sembrato un esercizio interessante per capire chi siamo davvero, che possibilità ci sono, che opzioni abbiamo di fronte e che scelte compiremo. È una frontiera più che fisica. Lo spazio non è fatto per noi mollicci sacchi di carne, avventurarcisi è la cosa più interessante e coraggiosa che si possa fare e non c’è fine ai problemi che pone come non c’è fine alle soluzioni possibili, almeno non nella fantasia.
Come concepisci la struttura sociale nei mondi che inventi: più improntata all’uguaglianza o maggiormente in stile oppressi-oppressori? Cosa ti affascina in questa o queste strutture sociali e da cosa pensi che le scelte siano influenzate, nel tuo caso?
Sono un sociologo antifascista e apertamente schierato: conosco molto bene l’autoritarismo e per me rappresenta un male assoluto da evitare con ogni mezzo. Le società che invento sono di norma molto più egalitarie della nostra, con qualche eccezione se mi va di mostrare il contrasto. Non è una cosa che pianifico, dipende dal tipo di storia che mi viene in mente.
Esempio: la razza aliena che preferisco tra quelle che mi sono inventato ha una struttura sociale gerarchica estremamente rigida chiamata Unarchia, con a capo un singolo individuo detentore del potere assoluto. Sono culturalmente e geneticamente omogenei, arroganti xenofobi, colonizzatori e guerrafondai… in due parole, luridi fascisti. Nel mio mondo narrativo il loro ruolo è, spesso, prendere schiaffi, ma sono un’ottima scusa per esplorare ed esporre i meccanismi dell’autoritarismo, i suoi limiti, i suoi vantaggi e il prezzo che si paga per ottenerli. Non spoilero niente, ma andatevi a leggere Sarà per la prossima volta (Il Magazzino dei Mondi n.2) e Pagina bianca (Il Magazzino dei Mondi n.5).
Parlando di forme di governo, quali hai trovato più interessanti e hai voluto esplorare nelle tue opere? Hai tratto ispirazione da qualcosa di reale o hai inventato di sana pianta?
Prendo a esempio il mio racconto Il sistema solar dell’avvenir, pubblicato sul n.23 di Short Stories, Edizioni Scudo. I protagonisti sono minatori della fascia asteroidale alle prese con una burocrazia tanto socialista quanto demenziale. Ha dei toni decisamente anarchici, filosofia politica che mi ha sempre affascinato… parlo della roba che scrivevano Proudhon, Bakunin e Kropotkin, per dare un’idea. Ma è anche, spero, un racconto con cui si può relazionare intimamente chiunque abbia un lavoro che ama e odia al contempo, magari per le condizioni in cui è costretto a svolgerlo.
Poi, da sociologo, mi affascinano molto anche i sistemi autoritari: li conosco meglio di quanto vorrei, quindi non mi faccio remore a usarne gli elementi nelle mie storie se mi serve un sistema sociale atroce, verticistico e dittatoriale, disposto a ogni tipo di crudeltà per ottenere quello che vuole. Questo mi fornisce anche la scusa per esplorare il fatto che siamo animali sociali, come funziona la cooperazione non a somma zero, cosa sia la moralità, cosa questo abbia a che fare con la sopravvivenza delle specie e la loro evoluzione e tanti altri concetti divertenti che diamine mi fermo qui prima di iniziare a sproloquiare.
Quali popolazioni compaiono nelle tue opere? Quale specifico ruolo hanno nei mondi che crei? Ti va di fare un paio di esempi?
Mi piace darmi all’umorismo, di quando in quando − vedere Del perché suonano gli antifurto, su Il Magazzino dei Mondi n.3 − quindi ci sono i meravigliosi ma solitari Kath’a’phrattee, il cui unico difetto è una lingua così inascoltabile da causare aneurismi alle altre specie senzienti, o gli abietti GaZ‡dØÐð, esseri crudeli e sanguinari simili a verdi macine tentacolate che praticano la più profonda e raffinata forma di teatro mai conosciuta in tutto il Tempospazio. Ma la mia specie preferita, come ho detto altrove, sono i Moebiani: amebe di 70kg che parlano coi feromoni e col colore della propria membrana, che ne riflette gli stati emotivi. Il loro ruolo è quello di spietati colonialisti guerrafondai e il mio divertimento è inventare sempre nuovi modi di metterli nei guai. Sono gli unici che hanno un ruolo ben definito, per il resto mi piace molto concentrarmi sulla specie umana e, in generale, su specie che non abbiano un “compito”, narrativo o meno, ma siano complesse, composite, piene di tendenze contrastanti. È lì che ci sono le storie più interessanti, nella complessità.
Quale emozione pervade i mondi che crei? Preferisci un mondo di speranza, un mondo di oppressione, uno dove la giustizia va guadagnata, uno dove le novità sono entusiasmanti o dove invece tutto è già stato provato e prevale una pacata rassegnazione? Cosa ti ha fatto prendere quella decisione?
Il mio motto (sì, ho un motto. È tutto mio e mi è caro. Non ridete), coniato quando ancora cantavo, è “costruisco mondi perché in questo non tornano i conti”. Quindi i mondi che costruisco sono i mondi che vorrei vedere, di media. Anche quando, come in questo periodo, sto lavorando a una cosa hard SF decisamente apocalittica in cui non c’è salvezza per nessuno, l’ottimismo ha un ruolo. Non siamo che scimmiette pelate, stare insieme e darci una mano è uno dei più profondi significati della vita. Cosa che gli autoritari e gli individualisti non accettano e non capiscono, al punto che vedono come una debolezza quella che è la più grande forza della nostra specie. Anche quando il mondo che costruisco è terribile, il punto della storia è sovente cambiarlo.
Il mio esempio preferito di questo ottimismo “feroce”, arrabbiato, si trova nei lavori di Terry Pratchett. Raccomando a tutti di leggerlo, aveva una comprensione della (e una compassione per la) condizione umana che non ha rivali in nient'altro che mi sia mai capitato tra le mani. Lo considero uno dei grandi geni letterari dell’ultimo secolo. Il MIO esempio preferito invece, nel senso di scritto da me, si trova ne Il Grande Racconto, pubblicato su World SF Magazine Italia n. 11. Nel racconto l’umanità è uscita da una catastrofe immane per puro caso e ha deciso “mai più”. Ho usato la premessa per parlare a modo mio dei meccanismi della solidarietà, i cambiamenti sociali necessari per conseguirla, la logica del rifiuto dell’individualismo senza remore, l’importanza della memoria nel preservare la coesione sociale. Specialmente ora che il nazismo è tornato su scala globale, credo sia importante parlarne.
Ultima domanda: se vuoi, segnala uno o due titoli tuoi che riflettono l'ambientazione che ritieni più riuscita.
Senza dubbio Sarà per la prossima volta e Il Grande Racconto. Il primo perché il pianeta è la Terra, il punto di vista è molto alieno e il colpo di scena buono (me lo dico da solo), il secondo perché è una Terra del futuro che mi piacerebbe tanto vedere: cooperazione come valore assoluto, uguaglianza, integrazione con l’ecosistema, nessuna belligeranza.